Un carro armato chiamato Fury
Un carro armato chiamato Fury
“Un film monumentale e appassionante caratterizzato dall’orrore di una guerra che ha invaso gli uomini di culture differenti tramutandoli in carnefici esseri mostruosi uccidi-vite innocenti senza l’alcun minimo pudore umano”. Ciò è quello che avvertiamo dal film di David Ayer uscendo dalla sala. Quello che viene avvertito è il terrore e la brutalità della guerra che trasforma uomini in bestie assatanate dallo spirito fino ad arrivare ai sensi più concreti.
Un film caldamente consigliato per la bellezza delle immagini e la forza coinvolgente degli eventi che analizzano gli aspetti più orrorifici della seconda guerra mondiale esaltando le tematiche dell’irrazionalismo tra i soldati alleati e le loro menti distorte da una realtà più grande di loro: la realtà della guerra. Il tutto osservato dal punto di vista di cinque uomini all’interno di un carro armato per tutta la durata del film; il che aumenta il coinvolgimento dello spettatore che si ritrova letteralmente catapultato all’interno del carro armato Fury.
Infatti se notiamo bene i personaggi interpretati da Brad Pitt, Shia LaBeouf, Logan Lerman, Michael Peña e Jon Bernthal, ci accorgiamo che ognuno rappresenta un carattere differente: abbiamo il cagnaccio messicano sputa-ossa, l’emergumeno americano poco intelligente ma pienamente convinto nei “valori” della guerra, il cristiano intellettuale che affida la sua vita a dio, il pivellino inizialmente spaventato e intimorito dalla guerra ma che poi si tramuta in una “macchina uccidi-scopa e spara” (come lo soprannominano i suoi compagni nel film) e l’eroico caposquadra idealmente perfezionista e concreto nei propri tatticismi di guerra e che, empiricamente, insegna al pivellino come vivere la guerra e di come salvarsi da essa. Quest’ultimo personaggio, interpretato da Brad Pitt, assomiglia moltissimo ad un Aldo Raine (tenente/protagonista di “Bastardi senza Gloria, di Quentin Tarantino del 2009) in vesti molto più concretizzate e realistiche a differenza del personaggio caricaturesco tarantiniano.
“Realistico”. È proprio questa la parola che caratterizza il film Fury? Non proprio. La parola “realistico” suona bene quando parliamo di scenografia, fotografia e costumi; questo perché ci sembra di entrare nel pluripremiato “Salvate il soldato Ryan” di Steven Spielberg (1997). L’atmosfera, infatti, ricorda molto quella del film di Spielberg che, a sua volta, rende molto bene l’idea della guerra combattuta nel clima fumoso, sabbioso e dai colori tenui della campagna nord europea (infatti, sia il film di Spielberg che quello di David Ayer, sono ambientati tra la Francia del nord e la Germania). Per cui un film realistico nella forma ma non nel contenuto essendo molto romanzato e stracolmo di un’azione eccessiva e demolitrice che ha il solo scopo di aumentare il phatos della guerra; con l’aiuto della musica nei momenti salienti e dei giochi di montaggio per far aumentare la suspense degli eventi. Se la forma si avvicina, il contenuto lo allontana rispetto al film di Spielberg che sembra un vero e proprio documentario di guerra che esclude la “musica da suspense” e rende visibili anche quei momenti morti di una battaglia che invece vengono saltati col montaggio in Fury per raggiungere più velocemente i momenti d’azione. Arriviamo infine alla regia, nei contenuti, più realistica e coinvolgente di Steven Spielberg che utilizza, non a caso, la macchina da presa come se fossero due occhi attaccati sul cranio di un soldato americano che, in quei momenti, sta vivendo l’orrore della guerra.
Un film quindi pesante (positivamente parlando) e monumentale, come è monumentale la scena finale (ATTENZIONE SPOILER!) in cui vediamo un inquadratura in vista dall’alto che ritrae il carro armato Fury sconfitto dai tedeschi e capace di farci immaginare il carro, ormai liberato dall’ultimo superstite sopravvissuto (il pivellino “macchina”), simbolicamente tramutato dal regista in un monumento commemorativo alla memoria dei cinque eroi che da soli hanno sterminato più di cento nemici, e posto nel mezzo di una fantomatica piazza con conseguente cardo e decumano scavati sul fango per far muovere gli alleati impegnati nell’avanzata verso una Berlino ormai alla deriva: siamo nel 1945; settant’anni fa il Nazismo veniva sconfitto.
Luca Nardi